‘Usme del paradiso’ assomiglia alla traduzione – anche incerta, comunque
sofferta, sovente felice – d’un poema remoto, giunto a noi incompleto, oltre che
raccontato in una lingua di difficile comprensione perché figlia di un pensiero
lontanissimo, pregno di primitiva essenzialità. Tale fatica nel rendere un
messaggio così remoto è percepibile nel colore tribolato della parola in ‘Usme
del paradiso’. Essa tuttavia riesce pure a echeggiare rotonda e compiaciuta,
dando vita a immagini forti e misteriose, che catturano e sfuggono: “lucore
minaccioso”, “fuliggine di un incubo”, “cuoio di una memoria”, “respiro equoreo”,
“predicati amaranto”, “atrocità dell’alba”… Vita, morte, degrado ed evoluzione
prendono forma sotto l’occhio di una sensibilità che in altri tempi si sarebbe
potuto chiamare ‘morbosa’. Gonfia di rimpianto, ma pure di sottile speranza,
‘Usme del paradiso’ suona come omaggio commosso a quella “straziante,
meravigliosa bellezza del creato” che solo Pier Paolo Pasolini sapeva leggere tra
le nuvole.
Italo Interesse
Dalla nota dell’autore:
Ho sognato, in questo tempo speciale, di essere o di tornare ad essere un animale
selvatico, uno di quelli dal pelo ispido, villoso e farfugliato sulla schiena, goffo, di
quelli che vivono nell’umidità del sottobosco e che, spesso, si nascondono durante il
giorno per andare a caccia di notte. Un animale dal pelo fulvo; oppure grigio a
strisce nere; un animale con aculei sulla sua schiena e dal muso allungato e
baffuto. Un animale grasso dalle zampe corte e dalle unghie lunghe. Un animale
dagli occhi piccoli che non rinuncerebbe mai ad annusare quelle tracce olfattive
che conducono al paradiso. Ho sognato di potermi nutrire di piante leggere e
saporite, di squisite coccinelle e teste di granchio. Ho sognato di poter parlare col
fiume e con la luna e di sentirmi libero dentro questa natura, imparando, così, a
non averne più paura.
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